Russia, anni '80, sul leggendario treno della Transiberiana diretto ad Ulan Bator, in Mongolia, due estranei si trovano a condividere lo stesso scompartimento: una timida e taciturna studentessa finlandese e un operaio russo, rozzo e violento. La ragazza ha lasciato a Mosca il suo fidanzato che per non dover andare combattere in Afghanistan si è finto pazzo ed è stai ricoverato in manicomio dove però finisce per impazzire davvero, l'uomo invece, è diretto in Mongolia a sfidare una volta in più il suo destino di violenza e miseria. Lo scompartimento è uno spazio claustrofobico, al di là del finestino l'immensità del desolato paesaggio siberiano immerso nel silenzio dell'inverno.
Un paesaggio segnato dalle rovine di grandi opere in dissoluzione, simulacri di un mondo in disfacimento. Sono gli anni che precedono lo smembramento dell'URSS, l'economia affonda, lo stato continua a costruire casermoni di cemento in periferie squallide e remote, ovunque fango e disfacimento e povertà.
Lo stile di Rosa Liksom è scarno, spesso crudo, nessuna indulgenza, nessun tentativo di cogliere qualche particolare rassicurante, lo squallore e la solitudine la fanno da padroni, viene da chiedersi come si possa vivere in questi luoghi così aspri e crudeli.
Non a caso i dissidenti ancora ai giorni nostri vengono mandati in Siberia.
Arrivata alla fine, chiuso per sempre il libro, mi sono sentita meglio.
Brava ad essere arrivata alla fine!!!
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